16 Dic, 2019

Principali Domande & Risposte

16 Dic, 2019

Domande e risposte

Tante domande che richiedono ciascuna una risposta tecnica motivata, ma anche un rassicurante rapporto con il medico e/o il personale sanitario che ha in cura il paziente. Il momento informativo e sopratutto educativo è un passaggio fondamentale del percorso riabilitativo nonché del Programma di Prevenzione Secondaria dopo un evento cardiaco. Il paziente deve riprendere in mano la propria vita e imparare a contribuire in modo fondamentale alla gestione ottimale della propria malattia nel lungo periodo. Molti atti o eventi della vita quotidiana vengono visti e vissuti con una curiosità ed un interesse nuovo e contemporaneamente cresce il bosogno di conoscenze e chiarimenti. Il personale infermieristico e tecnico-sanitario ha un ruolo importante in questo processo educativo-formativo ed è fondamentale che il messaggio che viene dato al paziente risulti coerente con le più recenti conoscenze medico-scientifiche, anche sugli argomenti apparentemente più smeplici e comuni.

Di seguito si ha la possibilità di scaricare file che rispondono ad alcune delle domande più frequenti.

Come e quando usare la trinitrina?

Testo elaborato dal Prof. Sabini Scardi

Cos’ è la trinitrina?

Da oltre 100 anni questo farmaco è disponibile per aiutare i pazienti con malattie coronariche a superare le crisi di angina pectoris.

E’ un farmaco a forma di “perlina” che contiene nitroglicerina.

Se, un paziente avverte o sotto sforzo o a riposo un attacco di angina pectoris, deve schiacciare la perlina sotto i denti o masticarla e succhiarla sotto la lingua, non deve essere deglutita perché si annulla l’effetto terapeutico.

Man mano che la perlina si scioglie in 1-3 minuti il dolore anginoso scompare, se non regredisce assumere un’altra perla. Se, dopo la seconda perla, il dolore anginoso non è scomparso recarsi in Ospedale o chiamare il 118.

Come agisce la trinitrina?

La trinitrina provoca dilatazione dei vasi venosi e poi di quelli arteriosi, comprese le arterie coronariche. Queste azioni determinano una riduzione del lavoro del cuore e una migliore irrorazione delle zone del muscolo cardiaco povere di sangue.

Ciò provoca la scomparsa del dolore anginoso.

Come gestire la trinitrina?

Ogni paziente con cardiopatia coronarica deve portare sempre con se la trinitrina. E’ consigliabile avere un porta-pillole in cui saranno messe 2-3 perle. Queste vanno sostituite ogni 2-3 mesi in particolare se la perla perde la sua lucentezza. Invece il flacone (contenente 70 perle) fornito dalla farmacia deve essere conservato in un armadietto asciutto al riparo da fonti luminose.

In queste condizioni la validità del farmaco é di 36 mesi.

Quali disturbi può provocare la trinitrina?

Il più comune è il mal di testa che scompare entro 20 minuti.

Un altro disturbo più importante è l’abbassamento improvviso della pressione arteriosa (con sensazione di svenimento), perciò è consigliabile che per la prima volta la perla sia assunta in posizione seduta.

Esistono altri preparati simili?

Oltre che sotto forma di perle, la Trinitrina è disponibile in Italia anche sotto forma di spray; uno spruzzo sotto la lingua equivale ad una perla. Questa preparazione però non è fornita gratuitamente dal Servizio Sanitario.

Un altro farmaco simile alla Trinitrina è l’isosorbide dinitrato da 5 mg (detto Carvasin 5 mg).

Anche questo farmaco, fornito gratuitamente dal Servizio Sanitario, ha le stesse azioni della Trinitrina, però si scioglie più facilmente sotto la lingua (perciò non vi è necessità di schiacciarlo sotto i denti) ma soprattutto dura molto più a lungo (circa 2 ore). Pertanto i pazienti con cardiopatia coronarica che soffrono di angina pectoris o di affanno sotto sforzo, possono preventivamente mettere sotto la lingua una compressa di Carvasin prima di uscire di casa o di affrontare uno sfrorzo fisico a scopo di evitare la comparsa della sintomatologia.

Prof. Sabino Scardi, Primario Emerito di Cardiologia, Trieste

Come prevenire l’endocardite? I consigli dell’Odontostomatologo

Testo elaborato dagli Odontostomatologi dott. G De Polo e G. Dal Broi

Prima di addentrarci nel processo di informazione e/o formazione dell’Utente/Paziente, allo scopo di chiarire dubbi e lacune sull’argomento, giova ribadire che deve essere rivolta grande attenzione alle condizioni di igiene orale dei Soggetti a rischio di problema cardiaco.

E’ noto che una scadente igiene e salute oro-dentale (vedi accumulo di placca batterica o tartaro, tasche parodontali dove si annidano batteri anaerobi, presenza di residui radicolari…) determina infiamma zioni e infezioni gengivali che spontaneamente o durante pratiche odontoiatriche possono favorire la presenza marcata di batteri nel circolo sanguigno (= batteriemie) (sostenuta da streptococchi, stafilococchi, batteri anaerobi, più raramente miceti…) particolarmente pericolosa per soggetti predisposti all’endocardite batterica o più in generale a cardiomiopatie… Quindi, condizioni ottimali di salute del cavo orale devono essere raggiunte e mantenute sia prima di avviare il Paziente ad interventi chirurgici cardiaci (sostituzioni di valvole, autotrapianti vascolari di innesti di aorta, by-pass aortocoronarici….) sia dopo l’esecuzione di tali delicate e complesse procedure attraverso controlli e richiami per l’igiene oro-dentale.

Cosa si intende per profilassi odontoiatrica per il Paziente cardiopatico?

Conservare la salute ed evitare la malattia sono i compiti primari della medicina moderna.

La profilassi è più importante, più semplice e più vantaggiosa di una terapia dispendiosa dal punto di vista clinico ed economico.

Dunque, per profilassi s’intende la prevenzione di un evento dannoso e significa mettere in atto manovre o procedure per evitare che si manifesti una situazione di malattia.

La profilassi antibiotica che si adotta per prevenire le infezioni batteriche a livello dei tessuti e delle valvole cardiache differisce dal trattamento di una infezione conclamata e infatti, nel primo caso, si avvale dell’utilizzo di antibiotici per un tempo limitato ma ad alte dosi.

Il fine ultimo è di evitare che i batteri si stabiliscano e producano vegetazioni infette nei tessuti a rischio (endocardio e valvole) per cui il farmaco deve essere presente in queste sedi prima dell’esposizione ai batteri che può verificarsi normalmente in seguito ad alcune manovre odontoiatriche senza nessuna conseguenza nei soggetti non a rischio, ma che può essere pericoloso nel soggetti a rischio.

Quali sono i Pazienti a rischio su cui effettuare la profilassi in corso di terapia odontoiatrica?

Secondo l’American Heart Association e l’European Society of Cardiology sono tre le tipologie di Pazienti da ritenere a rischio per lo sviluppo dell’endocardite batterica:

Pazienti che hanno già avuto in passato episodi di endocardite batterica, Soggetti che hanno valvole cardiache sostituite (con protesi meccaniche o biologiche), Pazienti che hanno subìto interventi chirurgici per la correzione o costruzione di shunt (derivazioni) polmonari o sistemici.

Queste categorie sono considerate ad alto rischio mentre ve ne sono altre considerate a medio rischio che richiedono e per le quali si raccomanda comunque la profilassi come:

  • Pazienti con difetti congeniti cardiaci,
  • Pazienti con disfunzioni valvolari acquisite,
  • Pazienti con cardiomiopatia acquisita,
  • Pazienti con prolasso della valvola mitrale con regurgito.

Quando è necessario eseguire la profilassi?

All’atto della prima visita odontoiatrica e prima del ciclo di cure, il Dentista deve raccogliere tutte le informazioni che riguardano lo stato di salute del Paziente , sia pregresso che presente (vedi anamnesi approfondita).

Inoltre il Paziente, se ne è a conoscenza, è tenuto a riferire l’eventualità di rischi legati ad infezioni batteriche pregresse, così come è necessario che riferisca la presenza di soffi cardiaci riscontrati nel passato.

In situazioni dubbie il Dentista dovrà richiedere una consulenza cardiologica nell’eventualità di prescrivere la profilassi.

Quali sono gli interventi odontoiatrici che richiedono profilassi per il soggetto a rischio?

Un pool di Esperti della Società Britannica di Chemioterapia (BSAC) ha recentemente stabilito che tutte le procedure odontoiatriche che prevedono l’interessamento dei tessuti dento-gengivali, compreso il trattamento endodontico del canale necrotico, richiedono la profilassi antibiotica, nel paziente a rischio.

Per rendere più completo l’argomento, comunque, riportiamo la lista degli interventi odontoiatrici a rischio di indurre una batteriemia:

estrazioni dentarie, terapie parodontali (chirurgia muco-gengivale, sondaggi, detartasi se previsto sanguinamento gengivale, levigatura delle radici) implantologia, reimpianto dentale, inserimento di fibre sottogengivali, anestesia infraligamentosa, posizionamento di bande ortodontiche.

Perché alcuni interventi odontoiatrici non richiedono la profilassi sul Paziente a rischio?

Si tratta di cure che non interessano direttamente i tessuti molli (gengive e mucose), le radici e i canali dentari, che potrebbero fungere da ricettacolo di germi, per cui in nessun modo possono scatenare una batteriemia.

Segnaliamo di seguito le terapie che possono essere eseguite senza rischio per il Paziente: trattamenti di odontoiatria conservativa, anestesia locale, posizionamento della diga di gomma, rimozione di suture, presa di impronte, trattamenti a base di fluoro, esecuzione di radiografie, registrazione di apparecchi ortodontici.

Infine, a conferma dell’importanza di quanto sopra, recenti indagini epidemiologiche eseguite nella città di Torino dimostrano un’incidenza di endocardite batterica di 3,6 casi ogni 100.000 abitanti e si ribadisce che ancora oggi l’evoluzione di questa malattia è severa.

Dott. G. Dal Broi – Medico-chirurgo spec. in Ortognatodonzia

La sessualità dopo un evento cardiaco

Testo elaborato dalla dott.ssa Lucia Marchiori – Psicologa-Psicoterapeuta

La sessualità rappresenta un importante aspetto della vita in quanto offre la possibilità di conoscere se stessi e l’altro attraverso la dimensione corporea. Il modo di viverla varia a seconda dell’età, della cultura di appartenenza, dell’educazione ricevuta, dei valori personali e dello stile di vita, delle condizioni fisiche e delle esperienze affettivo-relazionali. Il comportamento sessuale è naturale e riuscire ad esprimerlo con qualcuno implica una scelta che inizia cercando colui/colei con il/la quale si vuole entrare in contatto e continua allo scopo di costruire una storia e mantenere un rapporto anche fisico. L’espressione della vita sessuale è influenzata dalla rappresentazione che ciascuno ha della sessualità nonché dalla disponibilità a scoprire insieme all’altro i rispettivi corpi.

Nel caso in cui la sessualità sia concepita come “prestazione fisica”, la persona avrà la tendenza a valutare la soddisfazione in base al criterio dell’efficienza, cercherà di ottenere dal rapporto un risultato positivo e accetterà con difficoltà un eventuale esito negativo. Questo tipo di relazione sessuale mette in gioco la conferma di sé e, pertanto, aumenta il livello d’ansia legato alla prestazione.

La sessualità vissuta come un “incontro” di corpi e di mondi emotivo-cognitivi non ha la finalità di arrivare ad un risultato e consente di accogliere tutto quel che accade nelle più variegate sfumature. Tale manifestazione sessuale è legata al bisogno di vivere il desiderio, al piacere di stare nell’intimità rispettando i tempi e i ritmi di ognuno, di alimentare la fantasia e l’eccitazione, ma, allo stesso tempo, aiuta a riconoscere i propri limiti.

La sessualità, dunque, permette di manifestare il nostro peculiare modo di “essere nel mondo”, mette in evidenza la nudità sia corporea (corpo perfetto/imperfetto, forte/debole, sano/malato) sia psichica (sfera degli affetti, desideri, paure, fantasie, valori, credenze).

La persona si trova a riordinare la propria vita, a regolare diversamente le forze fisiche e psichiche. A volte la patologia cardiaca può modificare profondamente l’esistenza e costringere ad organizzare in modo nuovo la giornata, le relazioni familiari e amicali, l’attività lavorativa, gli interessi sociali. Per qualcuno tutto può sembrare più difficile, complicato, irrisolvibile. L’eventuale presenza di stati d’ansia, irritazione, labilità emotiva o depressione, evidenzia la necessità di un riadattamento globale a livello personale, familiare e sociale.

Chi ha ancora dei figli a carico o dei problemi economici da affrontare pensa di non riuscire a farcela, ma piano piano, superato il periodo di convalescenza e grazie alla riabilitazione, la vita quotidiana riprende. Si scopre che il “cuore rattoppato” può funzionare anche meglio di prima, bisogna ovviamente seguire la terapia farmacologica, tenere sotto controllo i fattori di rischio (sedentarietà, alimentazione scorretta, fumo, alcool, diabete, colesterolo alto, stress) e, possibilmente, cambiare stile di vita.

Ne può risentire la sfera sessuale?

Alcune persone mostrano qualche difficoltà a riprendere l’attività sessuale e avvertono un calo del desiderio, altre riscontrano un disturbo di erezione.

La normale vita sessuale potrebbe essere frenata anche dal/dalla partner che ha paura di sottoporre il cuore del cardiopatico ad un eccessivo stress fisico ed emotivo. Ciò riduce lo scambio affettivo-erotico e, di conseguenza, cresce la distanza interpersonale tra la coppia. Il/la partner vive con preoccupazione e apprensione la salute dell’altro e, nel timore di affaticarlo, gli limita le azioni, lo riempie di cure assistenziali che lo fanno sentire ancor più malato.

Bisogna, altresì, ricordare che la repressione del desiderio o la frustrazione di un bisogno può rappresentare un rischio maggiore del rapporto stesso. Occorre, quindi, risolvere o almeno alleviare l’eventuale problema sessuale parlando con il medico di base o il cardiologo e con lo psicologo.

Quando è possibile riprendere l’attività sessuale?

Quando si sono recuperate le forze e ci si sente pronti. Se le energie sono poche, possiamo fare del sesso “soft” riscoprendo il piacere dell’accarezzare, baciare, toccare. Non ci sono posizioni vietate, ma alcune sono più consigliabili di altre: stare sdraiati su un lato può facilitare il rapporto (chi ha avuto un intervento cardiochirurgico potrà adagiarsi con la parte laterale del corpo solo dopo qualche mese, a completa cicatrizzazione della ferita); fare all’amore seduti su una sedia può essere utile quando ci sono difficoltà legate alla respirazione. E’ importante scegliere un ambiente tranquillo, senza disturbi, né troppo caldo né troppo freddo.

Per limitare l’affaticamento è meglio farlo quando si è rilassati e riposati, comunque lontano dai pasti perché durante la digestione il cuore è impegnato ad apportare sangue al sistema stomaco-fegato-intestino.

Chi fa sesso con un partner diverso da quello abituale ha maggiore probabilità di avere un attacco cardiaco perché entrano in gioco altre variabili come, ad esempio, il fattore emotività.

E se la persona non riesce ad avere rapporti sessuali?

Questo non è un problema del singolo bensì della coppia e va superato insieme, chiedendo, eventualmente, l’aiuto di un esperto.

P. Watzlawick, studioso della comunicazione, dice che un presupposto dell’infelicità è non far sapere alla mano destra quello che fa la sinistra, quindi, il primo passo è parlare col partner. Le coppie che discutono apertamente affrontano meglio le difficoltà e trovano un maggior numero di soluzioni al problema.

Come la coppia può affrontare la difficoltà?

Molto utile è dirsi quello che va o non va bene, ciò che risulta gradito e ciò che disturba, quello che favorisce od ostacola il piacere sessuale. Inoltre, vanno esplicitate le aspettative reciproche perché la qualità degli scambi sessuali influisce sull’equilibrio psico-affettivo.

Imparare ad esprimere i propri sentimenti, le paure, i desideri, le ansie, il timore di non farcela o la preoccupazione di avere un attacco di cuore durante l’atto sessuale. Ritrovare la spontaneità e la naturalezza dello stare insieme.

Cosa può aiutare?

Qualche consiglio: cercare occasioni per favorire il buon umore, sorridere per i difetti di ciascuno, non sopravvalutare i motivi di scontro, ricordare la propria storia di coppia e le motivazioni al legame affettivo, aver fiducia nella relazione e trovare tutti i modi possibili per renderla soddisfacente. Prendersi il tempo per stare insieme.

E’ importante curare il benessere della coppia perché ha effetti positivi sullo stato di salute e su tanti altri aspetti della vita.

Posso andare al mare?

Testo elaborato dal dott. Andrea Ponchia – Cardiologo

Il soggiorno al mare non presenta delle particolari controindicazioni per i pazienti cardiopatici.

E’ comunque utile prestare attenzione ad alcuni accorgimenti, validi peraltro anche per la popolazione in generale, considerando gli effetti delle elevate temperature sull’apparato cardiocircolatorio. La cute, già sottoposta a vasodilatazione a causa del caldo, tende ad una maggiore sudorazione e a riscaldarsi. Come conseguenza della redistribuzione ematica, della vasodilatazione cutanea e della possibile disidratazione, i valori di pressione arteriosa, sia la massima che la minima, tendono a diminuire, anche significativamente.

Per il cardiopatico, già in terapia con farmaci attivi sui vasi sanguigni, esporsi al sole può quindi significare una ulteriore possibilità di abbassamento della pressione arteriosa.

Il calo pressorio può non essere avvertito o, al contrario, provocare un forte senso di spossatezza o addirittura una riduzione del senso di equilibrio. Un’immersione brusca in acqua, in tali condizioni, potrebbe far aumentare repentinamente la pressione e la frequenza cardiaca con improvvisa redistribuzione della massa ematica dalla cute verso gli organi interni magari già congesti per un pasto più o meno abbondante.

Quindi è importante:

  1. Evitare l’esposizione prolungata al sole nelle ore più calde; è preferibile andare sulla spiaggia al mattino presto, ritirarsi all’ombra e nelle zone più fresche nelle ore centrali, eventualmente ritornare sulla spiaggia a metà pomeriggio quando la temperatura si va abbassando.
  2. Immergersi in acqua in modo graduale, partendo sempre da zone in ombra, bagnandosi prima la nuca, le spalle e il ventre, soprattutto se si è accaldati o in seguito ad una attività fisica. Quando ci si trova in acqua, in caso di strani sintomi (affanno, palpitazioni) è meglio tornare rapidamente a riva e non tentare come si dice comunemente “di rompere il fiato”.
  3. Fate attenzione alla disidratazione. E’ opportuno programmare momenti della giornata in cui bere;la carenza di liquidi nell’organismo può avvenire anche in assenza di sete. Bere molto, almeno un litro e mezzo di acqua al giorno, anche se non se ne sente il bisogno, privilegiando l’acqua del rubinetto che ha le caratteristiche chimico-fisiche ideali per reintegrare in modo adeguato gli elettroliti persi con il sudore. Utile guardare sempre il colore delle urine; se sono molto scure, concentrate, si deve pensare che non si beve abbastanza da equilibrare le perdite avute attraverso la traspirazione.
  4. Evitare di bere bevande gassate o troppo fredde per ridurre i rischi di blocchi di digestione e congestioni. Evitare, inoltre, bevande alcoliche e caffé che, aumentando la sudorazione e la sensazione di calore, contribuiscono ad aggravare la disidratazione. Meglio mangiare cibi facilmente digeribili e alimenti contenenti molti liquidi, preferendo quattro, cinque piccoli pasti durante la giornata, ricchi soprattutto di verdura e frutta fresca, evitando cibi pesanti e ipercalorici come fritti, carni grasse etc.
  5. Proteggersi dai raggi del sole con creme solari che devono essere specifiche per il proprio tipo di pelle, più o meno sensibile. Occorre inoltre ricordare che alcuni farmaci come l’amiodarone (cordarone) si depositano anche sulla cute rendendola particolarmente sensibile all’esposizione al sole, anche indiretta. Con ” fotosensibilizzazione da amiodarone” si intende proprio il possibile effetto dei raggi solari sulla cute che, in corso di terapia con tale farmaco, può assumere un colore bronzino.
  6. Usare vestiti di colore chiaro, non aderenti, in cotone, lino o altre fibre naturali. I vestiti scuri o di materiale sintetico trattengono infatti più calore.
  7. Ricordarsi che il caldo può potenziare l’effetto di molti farmaci utilizzati per la cura dell’ipertensione arteriosa e di molte malattie cardiovascolari. Durante la stagione calda è opportuno, quindi, effettuare un controllo più assiduo della pressione arteriosa e richiedere il parere del medico curante per eventuali aggiustamenti della terapia (per dosaggio e tipologia di farmaci).

Posso andare in montagna?

Testo elaborato dal dott. Andrea Ponchia – Cardiologo

L’ambiente montano presenta alcune caratteristiche fisiche (carenza di ossigeno, bassa temperatura) che richiedono al nostro organismo alcuni aggiustamenti per far fronte alle modificate condizioni ambientali.

Salendo in quota la pressione atmosferica diminuisce e con essa l’ossigeno a disposizione del nostro organismo (a 3000 m la pressione parziale di ossigeno si riduce di quasi un terzo). Questo fatto determina, man mano che si sale, dei meccanismi di compenso nel nostro organismo quali un aumento della frequenza ed ampiezza degli atti respiratori (ventilazione polmonare) e della quantità di sangue pompata dal cuore grazie all’aumento della frequenza dei suoi battiti. Questo secondo meccanismo comporta, ovviamente, un aumento del lavoro del cuore e quindi delle sue stesse richieste di ossigeno, con il rischio che queste non siano completamente soddisfatte in presenza di gravi ostruzioni coronariche. Per questo motivo è importante che, anche in presenza di una malattia coronarica, questa non sia così grave da compromettere l’apporto di sangue al cuore anche in condizioni di aumentato carico di lavoro come durante sforzo.

Sulla base dell’esperienza personale e di quanto riportato in letteratura, si può affermare che i pazienti coronaropatici (inclusi quelli con pregresso infarto o sottoposti a procedure di rivascolarizzazione coronarica), senza terapia o in terapia, che a livello del mare non presentino sintomi, dimostrino una buona capacità lavorativa, con normale comportamento di frequenza cardiaca e pressione arteriosa durante la prova da sforzo eseguita in pianura e portata a termine in assenza di angina, di alterazioni elettrocardiografiche e/o di importanti aritmie, possono soggiornare in montagna e praticare, nella stagione estiva, l’escursionismo fino a quote anche di 3000 m. Essi devono però evitare passaggi particolarmente esposti e vie attrezzate che richiedono un elevato impegno muscolare di tipo isometrico, per l’eccessivo aumento della pressione arteriosa indotto da questo genere di sforzo.

Nella stagione invernale possono altresì praticare sia lo sci di fondo che di discesa fino a quote di 3000 m.

I rischi appaiono infatti legati a fattori indipendenti dall’altitudine, quali l’esposizione al freddo eccessivo od un intenso stimolo emotivo, come un’improvvisa situazione di pericolo, condizioni che pertanto andranno evitate. Anche se il rischio di male acuto di montagna non sembra aumentato nei pazienti coronaropatici, altitudini più elevate andranno evitate in tutti i casi potenzialmente a rischio e comunque valutate per il singolo paziente. Più complessa è la problematica relativa alle altre cardiopatie congenite ed acquisite.

Da un punto di vista generale, vizi valvolari lievi e piccoli shunt sinistro-destri, in buon compenso emodinamico, non controindicano la permanenza e l’attività fisica in quota, come d’altra parte neppure l’attività sportiva. Un approccio individuale per ogni paziente dovrà pertanto essere adottato nel caso di un maggiore grado di severità della cardiopatia o di cardiopatie a rischio di sincope o morte improvvisa, come stenosi aortica, miocardiopatia ipertrofica e miocardiopatia aritmogena.

Il giudizio circa la possibilità di soggiorno ed attività fisica in montagna dovrà infatti tener conto sia della situazione clinica del paziente cardiopatico sia delle caratteristiche dell’ambiente montano.

Inoltre l’isolamento e la non immediata possibilità di accesso a strutture ospedaliere attrezzate possono rappresentare situazioni potenzialmente pericolose in caso di sincopi, lipotimie o capogiri anche in assenza di vere e proprie difficoltà alpinistiche e a prescindere dalle semplici conseguenze dell’ipossia d’alta quota, come pure i pazienti in trattamento con terapia anticoagulante, nell’affrontare delle attività escursionistiche, dovranno tenere presente, nel caso di traumi,la possibilità dell’aumentato rischio emorragico dovuto all’impiego dei farmaci anticoagulanti.

L’esposizione alla quota ha un effetto variabile sui valori della pressione arteriosa sia nei soggetti normali, sia nei pazienti ipertesi. I pazienti ipertesi presentano una tendenza a valori sistolici più elevati già dopo poche ore a media quota, tendenza che si estende anche ai valori diastolici dopo 24 ore.

Successivamente la pressione arteriosa aumenta durante la prima settimana di permanenza in quota, sia nel normoteso che nell’iperteso, come dimostrato anche mediante monitoraggio ambulatoriale non invasivo per 24 ore.

Il paziente iperteso può soggiornare in montagna anche fino a quote di 3000 m, purché in buon controllo terapeutico, e praticarvi una moderata attività fisica come l’escursionismo o, nella stagione invernale, lo sci di fondo o di discesa, tenendo presente che il freddo è un ulteriore fattore aggravante l’ipertensione.

Egli, però, dovrà controllare frequentemente i valori pressori, specie durante la prima settimana di soggiorno in quota, con eventuali aggiustamenti posologici della terapia e porre la consueta attenzione alle norme igienico-dietetiche.

CONTROINDICAZIONI CARDIOVASCOLARI ASSOLUTE AL SOGGIORNO ALLE MEDIE QUOTE (1800-3000 m)

  • Infarto miocardico recente (< 4 settimane)
  • Angina instabile
  • Scompenso cardiaco congestizio
  • Forme gravi di valvulopatia od ostruzione all’efflusso ventricolare
  • Aritmie ventricolari di grado elevato (> 4a di Lown)
  • Cardiopatie congenite cianogene o con ipertensione polmonare
  • Arteriopatia periferica sintomatica
  • Ipertensione arteriosa grave o mal controllata

CONSIGLI GENERALI PER I PAZIENTI CARDIOPATICI

Affinché l’attività fisica durante un soggiorno in montagna non sia pericolosa, ma benefica, occorre inoltre tenere sempre presenti alcune norme generali.

  • Prima di salire in quota eseguire un’accurata valutazione clinico-funzionale, per stabilire il grado di severità della malattia, il livello di compromissione funzionale, il rischio di possibili complicanze e l’adeguatezza della terapia.
  • Durante i primi di giorni di soggiorno in quota, finché si svolgono le prime fasi del processo di acclimatazione, limitare l’attività fisica.
  • Evitare passaggi particolarmente esposti e vie attrezzate che richiedono un elevato impegno muscolare di tipo isometrico e rappresentano un intenso stimolo emotivo.
  • Cominciare lo sforzo lentamente e aumentarlo gradualmente; non interrompere mai bruscamente.
  • Non fare sforzi importanti subito dopo mangiato. Attendere almeno due ore anche dopo un pasto leggero.
  • Ridurre l’entità dello sforzo ed eventualmente evitare l’attività fisica in condizioni climatiche sfavorevoli (giornate molto fredde e ventose o molto calde e umide).
  • Prestare attenzione agli eventuali disturbi che insorgono durante lo sforzo o subito dopo (dolori al torace, dispnea, vertigini, affaticamento eccessivo) ed eventualmente contattare il medico.
  • Fare attività fisica solo quando si è in buone condizioni generali.

Posso bere il Caffè?

Testo elaborato dal Prof. Sabini Scardi

Il caffè, insieme con il te, è la bevanda maggiormente diffusa nel mondo e noi italiani siamo consumatori abituali.

La composizione del caffè è complessa (contiene più di 2000 sostanze differenti, alcune non ancora note) e varia in funzione della sua varietà, del metodo di coltivazione, grado di maturità, condizioni di stoccaggio, processi tecnologici e modalità di preparazione. Pertanto è necessario valutare con prudenza gli effetti del caffé sul metabolismo. Già nella Bibbia si parla del caffè, come una bevanda piena di leggenda e di storia, ma è a partire dal XI secolo che si descrissero i suoi effetti sull’apparato digerente

Per valutare gli effetti del caffè sull’uomo è necessario tener presente la dose utilizzata, la durata del suo consumo, il metabolismo individuale e le modalità di preparazione (bollito, filtrato, non filtrato ecc.).

Ad esempio una tazza di 150 cc di caffè contiene in media 95-125 mg di caffeina, il caffè bollito ne contiene 100-150 mg per tazza, mentre quello preparato con la “napoletana” ne contiene 60- 130 mg, quello espresso 60-120 mg, l’istantaneo 40-110 mg e il decaffeinato solo 2-5 mg.

La caffeina fra tutte le sostanze presenti nel caffé è quella più nota.

La leggenda racconta che la caffeina fu utilizzata per la prima volta da un religioso musulmano.

La caffeina è la sostanza (detta alcaloide) che induce i maggiori effetti ed è responsabile per il 10% del gusto amaro della bevanda. La sua velocità di assorbimento e di eliminazione oscilla individualmente da 4 a 12 ore.

E’ stato osservato che con il tempo di stabilisce un’assuefazione alla sostanza perciò gli effetti si attutiscono poco a poco nel tempo fino a scomparire.

Numerosi sono stati gli studi condotti sulla caffeina e sul caffè in generale.

Il caffè aumenta il metabolismo energetico mentre grandi quantità negli obesi e nei diabetici possono favorire l’aumento della glicemia, inoltre il consumo di caffè bollito, ma non filtrato può aumentare il livello del colesterolo nel sangue.

Questa bevanda aumenta la vigilanza e riduce negli sportivi la sensazione della fatica. Non ha invece alcun effetto sulla fertilità e sulla comparsa di tumori. Qualche soggetto è intollerante a livello gastrico ed intestinale su base individuale. In alcuni ritarda l’addormentamento e può rendere il sonno più leggero.

Quali sono i suoi effetti sull’apparato cardiovascolare?

Una moderata dose di caffè non provoca incrementi della pressione arteriosa, qualche soggetto avverte tachicardia (aumento del battito cardiaco) in particolare se assume il caffé dopo cena,altri infine riferiscono la comparsa di extrasistolia sporadica.

Per molti anni nella letteratura scientifica internazionale é stato discusso il rapporto fra caffè e rischio di infarto del miocardio con risultati controversi per il fatto che queste ricerche sono state condizionate da numerosi fattori che possono alterare i risultati: numero, età e sesso dei soggetti studiati, presenza o assenza di altri fattori di rischio coronarico, tipo e quantità di caffè assunti.

Alcuni studi condotti in soggetti con malattie coronariche hanno dimostrato che tre tazze di caffè al giorno non hanno alcun effetto nocivo sulla circolazione coronarica e sul funzionamento del cuore, anche se è stato dimostrato che un eccessivo consumo di caffè può bloccare i recettori cardiaci dell’adenosina sostanza che protegge il cuore dall’ischemia.

Per tranquillizzare i soggetti sani è apparsa molto recentemente sulla più importante rivista mondiale di cardiologia una ricerca dell’Università di Harvard (Stati Uniti) sul rischio di sviluppare una malattia coronaria in uomini e donne consumatori di caffè seguiti per un lungo periodo di tempo (20 anni).

Non è stato osservato alcun aumento di coronaropatia per i bevitori di 6 o più tazze di caffé americano. Inoltre l’assunzione di caffé in questi soggetti non ha causato importanti modificazioni del livello dei lipidi (grassi) plasmatici.

Infine per quanto riguarda il rapporto fra caffé e sviluppo di diabete mellito la presenza nella bevanda di potassio, niacina, magnesio e di antiossidanti dovrebbe condizionare un basso rischio di sviluppo di diabete mellito.

Conclusioni

Nella vita quotidiana, così come in medicina, è indispensabile tener conto del proverbio latino “buon senso nelle cose”.

Il caffè è una miscela di tante sostanze che può avere un effetto favorevole sul nostro organismo se consumato con moderazione senza dimenticare che gli eccessi non sono mai favorevoli per il mantenimento di un buono stato di salute. Una media di 2-3 tazze di caffè al giorno (in particolare se ben preparato e filtrato) è usualmente ben tollerata tenendo conto però delle caratteristiche individuali di ciascuno.

Un solo consiglio: evitare di fumare dopo il caffè, è un’abitudine che nuoce non solo al cuore ma anche ai polmoni.

Prof. Sabino Scardi, Primario Emerito di Cardiologia, Trieste

Posso viaggiare in aereo?

Testo elaborato dal dott. Andrea Ponchia – Cardiologo

Una lieve-moderata cardiopatia non rappresenta una controindicazione ai viaggi in aereo.

Mentre si vola, per effetto della pressurizzazione della cabina, è come se ci si trovasse a un’altitudine di 1500-2000 metri sul livello del mare: l’organismo reagisce aumentando lievemente la frequenza respiratoria e cardiaca. Generalmente questa situazione è ben sopportata, ma le precauzioni non sono mai troppe. Anche per i soggetti cardiopatici più gravi dovrebbe essere disponibile una fonte di ossigeno supplementare durante il volo; in questo caso è bene preavvertire la compagnia aerea della necessità.

Alcuni suggerimenti:

  1. Tutti i viaggiatori affetti da patologie cardiache dovrebbero portare con sé una documentazione della propria malattia e l’ECG più recente; dovrebbero anche avere una documentazione delle caratteristiche del pacemaker se presente. Opportuno tenere nel bagaglio a mano i farmaci abituali e gli eventuali medicinali di emergenza.
  2. La presenza di pacemaker o di defibrillatori impiantabili non controindica il volo; tali dispositivi non dovrebbero risentire delle onde elettromagnetiche generate dagli apparecchi elettronici presenti sull’aereo o dai metal detector fissi o portatili in uso negli aeroporti; tuttavia è prudente, in caso di controlli, chiedere di essere perquisiti “a mano” anziché con i detector portatili.
  3. Se sono presenti rischi di malattie tromboemboliche (precedenti trombosi o embolie, vene varicose) devono essere prese misure preventive: assumere una adeguata quantità di liquidi; effettuare regolarmente opportuni esercizi di stretching alle gambe; indossare calze elastiche durante il volo. I soggetti a rischio maggiore dovrebbero essere trattati con una bassa dose di aspirina (se non sussistono controindicazioni) o con eparina a basso peso molecolare prima della partenza.
  4. Chi ha subito un infarto deve fare attenzione, ma a tre-quattro settimane dall’evento, se il flusso sanguigno è stato ristabilito adeguatamente attraverso l’angioplastica o la trombolisi, non esiste una controindicazione assoluta e non è di norma necessario viaggiare con il medico accanto.

Il viaggio in aereo viene generalmente controindicato invece nelle seguenti condizioni:

  • Soggetti che abbiano avuto un infarto del miocardio nelle due settimane precedenti il viaggio o una trombosi venosa profonda (TVP) nel corso delle ultime quattro settimane.
  • E’ consentito il viaggio in caso di pregressa tromboflebite o TVP dopo 4 settimane soltanto se la terapia anticoagulante è stabilizzata ed efficace.
  • Persone che abbiano un’angina instabile, gravi aritmie, una insufficienza cardiaca congestizia mal compensata o una ipertensione mal controllata.
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